Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un fenomeno psicologico complesso che, pur riconoscibile per sintomi caratteristici – come pensieri intrusivi e comportamenti ripetitivi – non può essere ridotto a un semplice disturbo d’ansia. Con l’aggiornamento del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition), il DOC è stato infatti separato dai disturbi ansiosi e collocato in una categoria autonoma: i “Disturbi Ossessivo-Compulsivi e Correlati“, che comprendono anche il dismorfismo corporeo, il disturbo da accumulo, la tricotillomania e il disturbo da escoriazione. Questo cambiamento riflette una comprensione più articolata della natura del disturbo, che va oltre la regolazione emotiva per toccare aspetti più profondi del modo in cui il soggetto si rapporta a sé, agli altri e al mondo.
Il ruolo del contesto familiare nello sviluppo del DOC
Una componente fondamentale nella genesi del disturbo ossessivo-compulsivo, secondo l’approccio fenomenologico, è rappresentata dalle dinamiche familiari precoci, spesso caratterizzate da ambivalenza e controllo. Due configurazioni principali sono state evidenziate:
- Famiglie ambivalenti coercitive: il focus è sul controllo e sulla prevenzione dei pericoli, sia fisici sia morali. L’attenzione genitoriale è rivolta costantemente all’anticipazione del rischio e alla regolamentazione del comportamento, trasmettendo un’idea di mondo pericoloso, imprevedibile e moralmente severo.
- Famiglie ambivalenti evitanti: i genitori sono esigenti ma emotivamente freddi, impiegano punizioni anche umilianti, e richiedono una conformità assoluta a sistemi rigidi di regole morali, religiose o comportamentali. L’educazione è vissuta come disciplina, dove l’affettività autentica e il contatto emotivo vengono sacrificati in nome del controllo e dell’adesione normativa.
In entrambi i casi, il bambino apprende che l’autenticità emotiva non è accettabile: si sviluppa così un senso di sé dipendente da sistemi esterni e impersonali di riferimento, anziché da un contatto diretto con la propria esperienza interna. Questo porta a una progressiva alienazione emotiva e a una dipendenza da criteri morali astratti per validare la propria identità e le proprie emozioni. Il rituale ossessivo diventa allora una strategia per recuperare una coerenza interna e una continuità personale, in assenza di un ambiente familiare capace di validare e contenere in modo empatico i vissuti emotivi.
Le persone con DOC sperimentano ossessioni – pensieri, immagini o impulsi intrusivi – e mettono in atto compulsioni nel tentativo di ridurre il disagio. Questi rituali possono essere manifesti o sottili, e occupare una quantità significativa di tempo e risorse psichiche, interferendo con la quotidianità. Sul piano neurobiologico, si è osservato un malfunzionamento nei circuiti fronto-striatali, in particolare nel nucleo caudato e nella corteccia orbito-frontale: meccanismi che in condizioni normali consentono di “chiudere” un’azione vengono nel DOC continuamente riattivati, mantenendo il soggetto in uno stato di allerta.
Tuttavia, una comprensione più profonda e radicale del disturbo è possibile attraverso la lente della fenomenologia. Questo approccio invita a guardare al DOC non come a una sequenza di sintomi da sopprimere, ma come a una modalità esistenziale, una forma strutturata di essere-nel-mondo. In questa prospettiva, l’ossessività non è solo un tentativo di gestire l’ansia, ma un modo attraverso cui il soggetto cerca di costruire e mantenere un’identità coerente, fondata sull’adesione a un insieme rigido di regole, valori e principi astratti. Il senso di continuità personale – il “sentirsi sé” – dipende dal fatto che i propri vissuti interni aderiscano a questo sistema. Quando l’esperienza emotiva si discosta da tale ordine, il soggetto può sperimentare vergogna, colpa, paura e disorientamento.
I rituali e le ruminazioni, in questa ottica, non sono solo comportamenti disfunzionali, ma tentativi di ricostruire una coerenza interna, un ancoraggio che restituisca stabilità in un mondo vissuto come minaccioso nella sua indeterminatezza. Il rapporto con le emozioni è profondamente compromesso: le emozioni positive possono essere vissute con disagio o colpa, mentre emozioni come la rabbia devono essere giustificate razionalmente per essere considerate legittime. Intimità, desiderio, sessualità vengono spesso percepiti come ambigui o pericolosi. Tali vissuti emotivi affondano le radici in esperienze precoci, in ambienti familiari in cui l’ordine e il controllo erano valorizzati a scapito dell’espressione autentica del sentire. Il bambino, in questi contesti, impara a sopravvivere aderendo a modelli esterni di comportamento, sacrificando il contatto genuino con le proprie emozioni.
Un’idea centrale dell’approccio fenomenologico è che il problema principale del DOC non sia il desiderio di controllo, bensì la perdita di contatto con il proprio mondo emotivo e corporeo. Il sé viene vissuto come qualcosa da costruire attraverso il rispetto di criteri rigidi, non come un’esperienza viva e mutevole. Da ciò derivano il perfezionismo, la paura di sbagliare, l’incapacità decisionale, il dubbio patologico. L’obiettivo della psicoterapia fenomenologica non è correggere pensieri disfunzionali, ma creare uno spazio in cui il paziente possa tornare a sentire. Si tratta di un percorso di riconnessione con le proprie emozioni, imparando a lasciarle emergere senza giudizio, senza doverle regolare secondo codici morali o logici esterni.
Accettare l’incertezza, la vulnerabilità, l’imperfezione diventa allora parte integrante del processo terapeutico. Il cambiamento non avviene quando il soggetto “crede” di essere a posto, ma quando può finalmente testimoniare: “sono io, qui, ora”. In questa prospettiva, il sintomo non è un errore da correggere, ma un messaggio che segnala una frattura tra ciò che si è e ciò che si crede di dover essere. La decodifica di questo messaggio, all’interno di una relazione terapeutica autentica e non giudicante, può aprire la strada a una trasformazione profonda. Non si tratta solo di smettere di lavarsi le mani cento volte al giorno, ma di riscoprire una vita emotiva piena, libera, capace di accogliere la complessità del vivere umano.
1 commento
Davvero molto interessante l’articolo dottore. Lo farò leggere a mia sorella che è psichiatra