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In seguito a eventi significativi che comportano una perdita o una rinuncia — come un lutto, una separazione, un fallimento — è del tutto naturale sperimentare stati di tristezza, malinconia o scoraggiamento. Allo stesso modo, situazioni positive come il superamento di un esame importante o il raggiungimento di un obiettivo personale generano piacere, soddisfazione e, talvolta, una temporanea espansione dell’emotività. Queste risposte rappresentano il normale fluire dell’esperienza affettiva umana, modulata dagli stimoli e dagli accadimenti della vita quotidiana. Tuttavia, vi sono condizioni in cui gli stati d’animo assumono un’intensità, una durata e una rigidità tali da risultare estranei alla consueta esperienza soggettiva ed emotiva. In questi casi si parla di patologia affettiva: una condizione in cui il tono dell’umore non solo si discosta dalla norma, ma si cristallizza in modalità disfunzionali e pervasive, dando luogo a vissuti qualitativamente nuovi e spesso incomprensibili per chi non li ha sperimentati. Nei quadri più marcati è relativamente facile riconoscere la natura patologica di tali alterazioni: la malattia maniaco-depressiva, oggi denominata disturbo bipolare, è tra i disturbi psichiatrici più chiaramente identificabili nella pratica clinica. Si tratta di una patologia antica, descritta già nella Bibbia e riconosciuta sin dalle origini della medicina come entità autonoma. Nelle sue forme più gravi si caratterizza per una brusca rottura con le caratteristiche abituali della persona e per la presenza di sintomi invalidanti che interessano vari aspetti della vita psichica e somatica: dal funzionamento cognitivo a quello psicomotorio, fino ai ritmi biologici e vegetativi. È frequente, inoltre, una tendenza alla ricorrenza degli episodi e una familiarità positiva, cioè la presenza di casi simili tra i parenti di primo grado.