Tutti noi abbiamo un bisogno antico quanto l’uomo stesso: sentirci parte di qualcosa. Famiglia, amici, colleghi, partito politico: non importa il contesto, ciò che conta è non sentirsi soli. È una spinta naturale, quasi istintiva. L’uomo è un animale sociale, scriveva Aristotele, e aveva ragione. Ma cosa succede quando questo bisogno prende il sopravvento? Quando il desiderio di appartenenza si trasforma in una resa silenziosa alla voce dominante del gruppo? Qui entra in gioco uno dei concetti più potenti e inquietanti della filosofia del novecento: l’inautenticità del “Si”, quel “Si” impersonale elaborato dal filosofo tedesco Martin Heidegger. Nel suo acuto e complesso capolavoro Essere e Tempo, Heidegger descrive una condizione esistenziale che ci riguarda tutti: viviamo immersi in un mondo che ha già deciso per noi cosa si pensa, cosa si dice, come si agisce. Questo mondo impersonale viene chiamato das Man, traducibile con “il Si”: “si dice che…”, “si fa così…”, “non sta bene che…”. In questa dimensione, non siamo davvero noi a parlare, ma il ‘Si’ impersonale che si palesa all’altro. È una forma di alienazione sottile e quotidiana. Come un abito che non ci appartiene ma che indossiamo ogni giorno per non stonare con il resto del mondo. La chiacchiera, allora, prende il sopravvento e riempie il vuoto, deresponsabilizzandoci, Heidegger, dunque, ci mette davanti a uno specchio scomodo: nella nostra esistenza ordinaria, siamo spesso inautentici. Non perché siamo ipocriti o falsi, ma perché abbiamo dimenticato di essere noi stessi. Abbiamo lasciato che il “Si” decida al posto nostro. Questo pensiero trova un’eco potente in un altro filosofo esistenzialista Søren Kierkegaard, che parla della “Folla” come forza disumanizzante. Kierkegaard ammoniva: attenti a non dissolvervi in essa, a non nascondere la vostra responsabilità personale dietro al fatto che “tutti lo fanno” perché “cosi si fa”, “così si dice”. La Folla, dice, è il contrario dell’individuo. È l’abdicazione dell’anima. È la comoda scusa per non scegliere, per non pensare, per non sentire, per liberarsi dal peso delle responsabilità. Il punto d’incontro tra Kierkegaard e Heidegger è proprio lì, nella denuncia di questa vita vissuta “per sentito dire”, nella critica a quell’esistenza conforme, piatta, che spegne la voce interiore dell’autenticità. Kierkegaard esalta il valore del singolo, colui che ha il coraggio di pensare con la propria testa, di scegliere anche controcorrente, anche a costo della solitudine! Heidegger, dal canto suo, invita a una “chiamata della coscienza” – una sorta di scossa esistenziale che ci risveglia dal torpore dell’inautenticità e ci riporta a noi stessi, ai nostri orizzonti di possibilità d’essere. Nel mondo iperconnesso di oggi, questa riflessione è ancora più urgente. I social media, la cultura virale, le opinioni espresse in massa e replicate in un istante – tutto questo amplifica la potenza del das Man, della Folla. C’è un prezzo altissimo da pagare per chi prova a “sgarrare”, a non aderire alla narrazione dominante: esclusione, scherno, invisibilità. Viviamo una nuova forma di conformismo, più subdola perché mascherata da libertà. Ci illudiamo di scegliere, ma spesso le nostre scelte sono già state fatte per noi, da algoritmi, trend, aspettative invisibili. Heidegger non ci invita di vivere fuori dal mondo, ma di stare nel mondo in modo consapevole. Di riconoscere quando il “Si” ci sta parlando al posto nostro e, lì, scegliere. Kierkegaard direbbe: “diventa te stesso”, che non è uno slogan, ma un cammino tortuoso che richiede coraggio.
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1 commento
Bisognerebbe ritrovare un po’ di autenticità e semplicità e superare la paura di essere fuori dal “branco”! Bellissimo articolo, argomento molto attuale